A cura della Fondazione Milano Policroma
Testo di Riccardo Tammaro
Dopo aver a lungo sostato all'Ortica ci spostiamo ora verso il centro della città. Naturalmente ai nostri giorni percorriamo il cavalcavia Buccari e la via Marescalchi, per poi magari portarci tramite la via Dottesio sulla via Amadeo, ma nell'Ottocento ci saremmo spostati lungo la "strada per Treviglio" (corrispondente, muovendosi verso il centro città, alle attuali vie Amadeo, Briosi, Giovanni da Milano per giungere alle cascine dell'Acquabella, attuale piazzale Susa).
Per la nostra visita di oggi però prendiamo una deviazione a destra (quindi in direzione nord), svoltando dalla vecchia strada (oggi via Amadeo) in quella che una volta era una strada di campagna ed oggi invece è la via Calzecchi; dopo circa duecento metri ci troviamo dinanzi l'edificio rurale di Cascina Rosa (detta anche "La Rosa" e divenuta con tale nome frazione del Comune di Lambrate prima della sua annessione al Comune di Milano nel 1923), oggi affacciata su Largo Murani, ma domiciliata ai civici 3/7 di via Vanzetti.
La cascina, le cui origini risalgono all'epoca Viscontea, deriva il nome dalla famiglia di Marchesi di origine spagnola Ordogno di Rosales che l'acquistò nel 1637, e che vi possedevano anche una vigna ed un piccolo orto.
Pare che nei suoi pressi vi fosse una "Ca' di can", ovvero una di quelle case dove Bernabò Visconti nel quattordicesimo secolo soleva tenere i suoi cani. Grande amante di questi animali, si racconta infatti che ne possedesse cinquemila e, non potendoli tenere tutti a palazzo, li distribuisse ai propri sudditi, i quali avrebbero dovuto provvedere a mantenerli in buona salute. Periodicamente questi dovevano recarsi alla casa del signore per farne verificare le condizioni; qualora apparissero in cattiva forma venivano inflitte pene severissime. Da questo parrebbe derivare l'espressione milanese alla cà di can, ovvero "alla casa del cane" per indicare l'angoscia di recarsi dal signore in tali circostanze; una di queste, appunto si sarebbe trovata a nord di cascina Rosa.
Tornando alla nostra cascina, la si trova con un differente toponimo su antiche mappe, e compare anche sulla carta del Claricio del 1600; nei tempi andati rivestiva una certa qual importanza, e lo si deduce dalle dimensioni con cui è raffigurata sulla mappa del Catasto Teresiano (circa 1750): la cascina vi compare infatti come l'insieme di una corte quasi chiusa ad est e di un edificio padronale a ovest. Quest'ultimo rivolge il fronte principale con un portichetto a tre campate verso l'ampio giardino posto a settentrione (dove, come vedremo, è stato di recente ricavato un orto botanico), ripartito in appezzamenti regolari.
Nel catasto Lombardo-Veneto (circa 1850) la corte orientale, all'incirca quadrata, è completata, mentre a ovest un nuovo edificio collocato lungo la strada fronteggia la villa padronale. Alcuni corpi sono forse rifacimenti di fabbricati preesistenti. La configurazione definitiva della cascina venne realizzata dunque nella prima metà del 1800, ed è a forma quadrangolare con due corti (tra loro comunicanti per mezzo di un'arcata), l'una rettangolare, più ampia (ad ovest) e la seconda, quadrata, ad est; gli ingressi sono due, il principale sul lato nord e quello di servizio sul lato sud. La cascina è lievemente obliqua rispetto all'asse ovest-est.
Fino al 1936 la strada alberata che la congiungeva all'odierna via Marescalchi era immersa in un panorama agreste, e la cascina mostrava pilastri con vasoni di pietra e un triportico sormontato da un balconcino barocco di ferro battuto.
Durante la seconda guerra mondiale però alcune parti dell'edificio crollarono in seguito ai bombardamenti. La Cascina venne poi riattivata e fu abitata fino agli anni '60, quindi fu abbandonata definitivamente finchè nel 1983 il Comune di Milano rilevò il complesso; erano ancora riconoscibili, oltre alla villa, il fienile, le abitazioni dei salariati, il granaio e le stalle; seguirono anni di abbandono ma nel 1996 è stato stipulato un contratto in seguito al quale l'Istituto Nazionale dei Tumori ha acquisito per sessant'anni il diritto di superficie sull'area occupata dai fabbricati.
E mentre l'Univesità realizzava nell'area a nord della cascina un orto botanico (di cui dirò più dettagliatamente nel prossimo articolo), l'Istituto ha ricostruito due edifici per un totale di 2.000 mq mantenendone la forma originaria e, in uno di essi, la volta in mattoni.
Perciò sul cortile, contornato originariamente dalla casa dei salariati e dalla stalla, si affacciano ora gli edifici destinati agli studi Universitari in Statistica e Biometria e al Dipartimento di Ricerca di Medicina Predittiva e per la prevenzione dell'Istituto.
Si narra che la cascina e la villa fossero collegate mediante un passaggio sotterraneo alla Villa Vigoni e alla chiesa di San Martino di Lambrate, sua dirimpettaia, tramite uno di quei cunicoli misteriosi che costellano Milano e la sua storia; difficile stabilire se fosse realtà o leggenda.
Per certo nel prossimo articolo ci occuperemo invece della trasfomazione dell'ex-giardino in orto botanico.